“Il disco si posò” – Un racconto di Dino Buzzati

Dino Buzzati, al lavoro nel suo studio
Dino Buzzati, al lavoro nel suo studio

Questo racconto di Dino Buzzati, pubblicato nel 1968 all’interno della raccolta intitolata “La boutique del mistero”, è uno dei testi che amo rileggere più di frequente.

Parla di Ufo, ma non solo. Tocca a mio giudizio temi molto importanti in un modo leggero e allo stesso tempo profondo, come solo il grande Buzzati sapeva fare.

Per questo ho deciso di condividerlo con voi.

Buona lettura!

 

“Il disco si posò” – di Dino Buzzati

Era sera e la campagna già mezza addormentata, dalle vallette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che però subito taceva (l’ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, l’inspiegabile serenità del mondo, l’odor di fumo, i pipistrelli e nelle antiche case i passi felpati degli spiriti), quand’ecco il disco volante si posò sul tetto della chiesa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese.

All’insaputa degli uomini che erano già rientrati nelle case, l’ordigno si calò verticalmente giù dagli spazi, esitò qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi toccò il tetto senza strepito, come colomba. Era grande, lucido, compatto, simile a una lenticchia mastodontica; e da certi sfiatatoi continuò a uscire zufolando un soffio. Poi tacque e restò fermo, come morto.

Lassù nella sua camera che dà sul tetto della chiesa, il parroco, don Pietro, stava leggendo, col suo toscano in bocca. All’udire l’insolito ronzio, si alzò dalla poltrona e andò ad affacciarsi al davanzale. Vide allora quel coso straordinario, colore azzurro chiaro, diametro circa dieci metri.

Non gli venne paura, né gridò, neppure rimase sbalordito. Si è mai meravigliato di qualcosa il fragoroso e imperterrito don Pietro? Rimase là, col toscano, ad osservare. E quando vide aprirsi uno sportello, gli bastò allungare un braccio: là al muro c’era appesa la doppietta.

Ora sui connotati dei due strani esseri che uscirono dal disco non si ha nessun affidamento. È un tale confusionario, don Pietro. Nei successivi suoi racconti ha continuato a contraddirsi. Di sicuro si sa solo questo: ch’erano smilzi e di statura piccola, un metro un metro e dieci. Però lui dice anche che si allungavano e si accorciavano come fossero di elastico. Circa la forma, non si è capito molto: «Sembravano due zampilli di fontana, più grossi in cima e stretti in basso» così don Pietro «sembravano due spiritelli, sembravano due insetti, sembravano scopette, sembravano due grandi fiammiferi.» «E avevano due occhi come noi?» «Certo, uno per parte, però piccoli.» E la bocca? e le braccia? e le gambe? Don Pietro non sapeva decidersi: «In certi momenti vedevo due gambette e un secondo dopo non le vedevo più… Insomma, che ne so io? Lasciatemi una buona volta in pace!».

Zitto, il prete li lasciò armeggiare col disco. Parlottavano tra loro a bassa voce, un dialogo che assomigliava a un cigolio. Poi si arrampicarono sul tetto, che ha una moderatissima pendenza, e raggiunsero la croce, quella che è in cima alla facciata. Ci girarono intorno, la toccarono, sembrava prendessero misure. Per un pezzo don Pietro lasciò fare, sempre imbracciando la doppietta. Ma all’improvviso cambiò idea.

«Ehi!» gridò con la sua voce rimbombante. «Giù di là, giovanotti. Chi siete?»

I due si voltarono a guardarlo e sembravano poco emozionati. Però scesero subito, avvicinandosi alla finestra del prevosto. Poi il più alto cominciò a parlare.

Don Pietro – ce lo ha lui stesso confessato – rimase male: il marziano (perché fin dal primo istante, chissà perché, il prete si era convinto che il disco venisse da Marte; né pensò di chiedere conferma), il marziano parlava una lingua sconosciuta. Ma era poi una vera lingua? Dei suoni, erano, per la verità non sgradevoli, tutti attaccati senza mai una pausa. Eppure il parroco capì subito tutto, come se fosse stato il suo dialetto. Trasmissione del pensiero? Oppure una specie di lingua universale automaticamente comprensibile?

«Calmo, calmo» lo straniero disse «tra poco ce n’andiamo. Sai? Da molto tempo noi vi giriamo intorno, e vi osserviamo, ascoltiamo le vostre radio, abbiamo imparato quasi tutto. Tu parli, per esempio, e io capisco. Solo una cosa non abbiamo decifrato. E proprio per questo siamo scesi. Che cosa sono queste antenne? (e faceva segno alla croce). Ne avete dappertutto, in cima alle torri e ai campanili, in vetta alle montagne, e poi ne tenete degli eserciti qua e là, chiusi da muri, come se fossero vivai. Puoi dirmi, uomo, a cosa servono?»

«Ma sono croci!» fece don Pietro. E allora si accorse che quei due portavano sulla testa un ciuffo, come una tenue spazzola, alta una ventina di centimetri. No, non erano capelli, piuttosto assomigliavano a sottili steli vegetali, tremuli, estremamente vivi, che continuavano a vibrare. O invece erano dei piccoli raggi, o una corona di emanazioni elettriche?

«Croci» ripeté, compitando il forestiero. «E a che cosa servono?»

Don Pietro posò il calcio della doppietta a terra, che gli restasse però sempre a portata di mano. Si drizzò quindi in tutta la statura, cercò di essere solenne:

«Servono alle nostre anime» rispose. «Sono il simbolo di Nostro Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, che per noi è morto in croce.»

Sul capo dei marziani all’improvviso gli evanescenti ciuffi vibrarono. Era un segno di interesse o di emozione? O era quello il loro modo di ridere?

«E dove, dove questo sarebbe successo?» chiese sempre il più grandetto, con quel suo squittio che ricordava le trasmissioni Morse; e c’era dentro un vago accento di ironia.

«Dio, vuoi dire, sarebbe venuto qui, tra voi?»

«Qui, sulla Terra, in Palestina.»

Il tono incredulo irritò don Pietro.

«Sarebbe una storia lunga» disse «una storia forse troppo lunga per dei sapienti come voi.»

In capo allo straniero la leggiadra indefinibile corona oscillò due tre volte. Pareva che la muovesse il vento.

«Oh, dev’essere una storia magnifica» fece con condiscendenza. «Uomo, vorrei proprio sentirla.»

Balenò nel cuore di don Pietro la speranza di convertire l’abitatore di un altro pianeta? Sarebbe stato un fatto storico, lui ne avrebbe avuto gloria eterna.

«Se non vuoi altro» disse, rude. «Ma fatevi vicini, venite pure qui nella mia stanza.»

Fu certo una scena straordinaria, nella camera del parroco, lui seduto allo scrittoio alla luce di una vecchia lampada, con la Bibbia tra le mani, e i due marziani in piedi sul letto perché don Pietro li aveva invitati ad accomodarsi, che si sedessero sul materasso, e insisteva, ma quelli a sedere non riuscivano, si vede che non ne erano capaci e tanto per non dir di no alla fine vi erano saliti, standovi ritti, il ciuffo più che mai irto e ondeggiante.

«Ascoltate, spazzolini!» disse il prete, brusco, aprendo il libro, e lesse: “…l’Eterno Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino d’Eden… e diede questo comandamento: Mangia pure liberamente del frutto di ogni albero del giardino, ma del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare: perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo sarà la tua morte. Poi l’Eterno Iddio…”

Levò gli sguardi dalla pagina e vide che i due ciuffi erano in estrema agitazione. «C’è qualcosa che non va?».

Chiese il marziano: «E, dimmi, l’avete mangiato, invece? Non avete saputo resistere? È andata così, vero?».

«Già. Ne mangiarono» ammise il prete, e la voce gli si riempì di collera. «Avrei voluto veder voi! È forse cresciuto in casa vostra l’albero del bene e del male?»

«Certo. È cresciuto anche da noi. Milioni e milioni di anni fa. Adesso è ancora verde…»

«E voi?… I frutti, dico, non li avete mai assaggiati?».

«Mai» disse lo straniero. «La legge lo proibisce.»

Don Pietro ansimò, umiliato. Allora quei due erano puri, simili agli angeli del cielo, non conoscevano peccato, non sapevano che cosa fosse cattiveria, odio, menzogna? Si guardò intorno come cercando aiuto, finché scorse nella penombra, sopra il letto, il crocefisso nero.

Si rianimò: «Sì, per quel frutto ci siamo rovinati… Ma il figlio di Dio» tuonò, e sentiva un groppo in gola «il figlio di Dio si è fatto uomo. Ed è sceso qui tra noi!»

L’altro stava impassibile. Solo il suo ciuffo dondolava da una parte e dall’altra, simile a una beffarda fiamma.

« È venuto qui in Terra, dici? E voi, che ne avete fatto? Lo avete proclamato vostro re?… Se non sbaglio, tu dicevi ch’era morto in croce… Lo avete ucciso, dunque?»

Don Pietro lottava fieramente: «Da allora sono passati quasi duemila anni! Purtroppo per noi è morto, per la nostra vita eterna!».

Tacque, non sapeva più che dire. E nell’angolo scuro le misteriose capigliature dei due ardevano, veramente ardevano di una straordinaria luce. Ci fu silenzio e allora di fuori si udì il canto dei grilli.

«E tutto questo» domandò allora il marziano con la pazienza di un maestro «tutto questo è poi servito?»

Don Pietro non parlò. Si limitò a fare un gesto con la destra, sconsolato, come per dire: che vuoi? siamo fatti così, peccatori siamo, poveri vermi peccatori che hanno bisogno della pietà di Dio. E qui cadde in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani.

Quanto tempo passò? Ore, minuti? Don Pietro fu riscosso dalla voce degli ospiti. Alzò gli occhi e li scorse già sul davanzale, in procinto, si sarebbe detto, di partire. Contro il cielo della notte i due ciuffi tremolavano con affascinante grazia.

«Uomo» domandò il solito dei due. «Che stai facendo?»

«Che sto facendo? Prego!… Voi no? Voi non pregate?»

«Pregare, noi? E perché pregare?»

«Neanche Dio non lo pregate mai?»

«Ma no!» disse la strana creatura e, chissà come, la sua corona vivida cessò all’improvviso di tremare, facendosi floscia e scolorita.

«Oh, poveretti» mormorò don Pietro, ma in maniera che i due non lo udissero come si fa con i malati gravi. Si levò in piedi, il sangue riprese a correre con forza su e giù per le sue vene. Si era sentito un bruco, poco fa. E adesso era felice. “Eh, eh” ridacchiava dentro di sé “voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite! Maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio.” (I due intanto si erano già infilati dentro allo sportello, lo avevano chiuso, e il motore già girava con un sordo e armoniosissimo ronzio. Piano piano, quasi per miracolo, il disco si staccò dal tetto, alzandosi come fosse un palloncino: poi prese a girare su se stesso, partì a velocità incredibile, su, su in direzione dei Gemelli.) «Oh» continuava a brontolare il prete «Dio preferisce noi di certo! Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgon la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c’è il male, e il rimorso, e il pianto?»

Per la gioia, imbracciò lo schioppo, mirò al disco volante che era ormai un puntolino pallido in mezzo al firmamento, lasciò partire un colpo. E dai remoti colli rispose l’ululio dei cani.

da: Dino Buzzati, “La boutique del mistero”, Mondadori, 1968, pp. 138-143.

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